giovedì 15 febbraio 2018

Razorbats - II

Rob Mules Records - 2018
Avevo scoperto i norvegesi Razorbats poco più di due anni fa con l’album di debutto “Camp Rock”, che mi aveva fulminato al primo ascolto: il disco mischiava glam, punk, powerpop e hard rock con una maestria vicina a quella dei loro conterranei Turbonegro nei tempi d’oro (non a caso era uscito per la Self Destructo Records, in quota Turbojugend). Dopo un’altra valida prova nel 2016 con l’EP “This High”, la band aveva perso cantante e bassista, vittime delle fatiche della vita on the road e del campare di musica. Il chitarrista Kjetil e il suo socio dietro le pelli erano lì lì per mollare ma fortunatamente alla fine hanno deciso di non gettare la spugna. Reclutati i rimpiazzi e aggiunta anche una seconda chitarra si sono rimessi al lavoro e domani sfornano il secondo LP, intitolato appunto “II”.

Il secondo lavoro prosegue in buona sostanza quanto fatto in precedenza, riprendendone influenze e stile: un solido mix di spessi riff di chitarra, ritmica diretta ma mai invasiva e melodie ben dosate per canzoni accattivanti. A segnare il principale cambiamento nel sound è la voce del nuovo cantante, più classicamente rock rispetto al rauco punk del suo predecessore. La musica di adatta di conseguenza, rallentando il passo a favore di maggiore pulizia e precisione, anche a costo di una scarna essenzialità. L’album è quindi meno immediato del suo predecessore, travolge meno al primo ascolto, si fa invece apprezzare di più man mano che lo si riascolta. Si tratta comunque di un ottimo lavoro che condivide, questo sì, con l’opera prima una notevole compattezza, figlia di un sound omogeneo ma mai noioso.

Pervaso da una leggera malinconia, nostalgica ma non priva di speranza, “II” passa dalla leggerezza glam dell’opener The Waiting ai territori più duri del singolo Social Rejects e alle atmosfere struggenti di Sister Siberia, altro estratto dal disco dove la voce dà un bella prova di sé. Ma si fanno apprezzare per un verso o per l’altro tutte le tracce: dalla sinistra Dead Boy City a Nowhere, il momento più punk dell’album, passando per il riff infettivo di Going Underground e la rabbia adolescenziale di Send In The Clowns. La mia preferita è però Bad Teacher, che offre il miglior equilibrio di tutti gli elementi e fa sentire qual è la cifra di questa seconda vita della band. “II” si chiude con la ballata Talk All Night, intrisa di quella malinconia da strade desolate.


Un disco perfetto per perdersi nei ricordi a notte tarda, tra whisky e sigarette, guardando il cielo. 


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